
Il 26 novembre del 1956 il medico argentino Ernesto Guevara salpa alla volta dell’isola di Cuba con un giovane avvocato di nome Fidel Castro e altri 80 ribelli determinati a rovesciare la dittatura di Fulgencio Batista con una rivoluzione. Medico, stratega e instancabile guerrigliero, il “Che”, alla guida di una colonna di uomini, dopo un lungo faticosissimo periodo sulla Sierra Maestra, conquista la città di Santa Clara e si riunisce ai compagni per marciare su L’Avana. Quello che appare sugli schermi, dopo otto anni di lavoro, è il Che di Soderbergh, quello che nessun altro avrebbe potuto fare in maniera simile, quello che di Soderbergh autore e produttore porta il marchio indelebile, anche là dove calpesta nuovi sentieri, anche e appunto perché li calpesta. Scardinando le convenzioni della continuità, con stacchi avanti e indietro nel tempo (bello il ritorno alla terrazza del primo incontro con Fidel) e spostamenti nello spazio – dalla foresta tropicale alla sede delle Nazioni Unite – che la dicono lunga sulla versatilità del protagonista, Soderbergh parla anche di se stesso, del suo cinema, che rimbalza tra esplorazione e diplomazia, tra le immagini ultravivide dell’avventura (girate con la Redcam) e quelle declinate nel bianco e nero glamorous targato Nordamerica e società dello spettacolo. Sono due binari: da un lato si fa strada un leader, tra i colpi dell’asma e dei fucili nemici, dall’altro nasce una stella, sotto i flash dei fotografi e delle interviste romantiche. In questo senso, nel suo film rispettosissimo e tutt’altro che declamatorio, il regista prende una posizione netta dicendoci che non è la meta che (gli) interessa, non l’icona, ma il viaggio. Il personaggio di Che Guevara (ri)nasce nel corpo più massiccio di Benicio Del Toro (lontano anni luce dal ragazzino sensibile dei Diari della motocicletta) e si costruisce per azioni, per tono della voce, per furore dello sguardo: prima con le armi del cinema che con quelle della storia.
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